Siamo circondati da vecchi che invecchiano male, e non parlo soltanto dei declini fisici e mentali, delle malattie tipiche dei nostri anni, Alzheimer in testa e Parkinson in coda.
Non parlo neanche delle prospettive di eutanasia collettiva che il declino del welfare ci prospetta, secondo il bel libro orwelliano La morte moderna di Carl-Henning Wijkmark in questi mesi da Iperborea, o le prospettive di vita obbligata anche per gli incoscienti e i morti-vivi auspicate da Ratzinger, due forme speculari di orrore che non tengono conto delle volontà dell'individuo e che esprimono amor di morte e non amor di vita. Parlo di dignità della vecchiaia, di vecchiaie a loro modo felici, nei limiti in cui può essere felice la diminuizione della capacità di azione che è tipica della vecchiaia.
Il cinema, in grazia del fenomeno del divismo, ha spesso dato della vecchiaia un'immagine un po' assurda: Gary Cooper o John Wayne o Robert Mitchum o Cary Grant o Humphrey Bogart attorno ai settant'anni dovevano comportarsi sullo schermo come se ne avessero ancora trenta o quaranta, e intrecciavano romantiche storie d'amore con attrici che davvero ne avevano venti o trenta, e le dive non erano da meno, fatte e rifatte, tinte e ritinte. Ma c'era anche un cinema, per esempio, a Hollywood i film di Howard Hawks (ricordate Un dollaro d'onore?) o di John Ford (con Wayme, James Stewart, Fonda...) o di Anthony Mann (con Stewart) o di Peckinpah (ricordate Sfida nell'Alta Sierra?) che hanno raccontato una vecchiaia che tiene testa fino all'ultimo alla malvagità del mondo, alla cattiveria degli uomini e delle società.
Si disse, e non si sbagliava, che in tutto questo c'era una sicura influenza dell'opera di Hemingway, così rilevante per l'immagine dell'eroe nel corso del Novecento, o meglio, dagli anni trenta e fino ai sessanta di quel secolo. L'eroe doveva "morire in piedi", doveva tener fronte alle avversità e fino all'ultimo difendere la propria dignità personale, la propria immagine e stima di sé, la coerenza con i propri ideali di gioventù. L'età conta e come, ci veniva suggerito, ma i suoi acciacchi non giustificavano le cadute morali, non giustificavano l'adeguamento della morale alla decadenza fisica. Si tratta di due cose diverse e che devono restare tali, ci veniva detto.
Bene, il cinema d'oggi ci racconta di vecchi che si fingono giovani, e nessuno ne avverte più il ridicolo salvo una manciata di giovani, o quando è un cinema serio ci racconta una sorta di latente lotta tra l'egoismo dei vecchi e l'egoismo dei giovani (e sono, come sappiano, i vecchi a vincere, hanno il potere e il sapere dalla loro e si fanno spietati anche di fronte a figli e nipoti pur di assicurarsi una sopravvivenza nel privilegio. I politici per primi, e magari anche i papi.
Il film più bello che si può vedere in questi giorni nelle sale - assieme a due splendide lezioni di storia come il polacco Katyn di Andrzej Wajda e l'etiope Teza di Haile Gerima - è certamente Gran Torino di Clint Eastwood, che non mi pare un capolavoro come alcuni hanno scritto, ma che è sicuramente un ottimo film. Esso racconta per l'appunto una vecchiaia che inizialmente vediamo ringhiosa, insoddisfatta, chiusa e cupa, in una città o cittadina del Mid-West , la vecchiaia di un settantanovenne vedovo con figli lontani, che non ama e anzi disprezza e da cui non è amato, e che è rimasto tra i pochi "bianchi" che si ritengono all-Americans, americani al cento per cento (anche se è d'origine polacca e si chiama Kowalski). Ha fatto la guerra di Corea (i suoi tormenti sulla violenza che ha esercitato non sono la cosa più convincente della sceneggiatura) e ha poi passato tutta la vita lavorativa alla Ford. Circondato da immigrati (anche se nati negli Usa come lui) finisce, come in un vecchio e bel film inglese di John Boorman interpretato dal nostro Mastroianni, Leone l'ultimo, per incuriosirsi dell'Altro, di quella strana famiglia di orientali che vive al suo fianco, e finisce per farsi maestro di vita anche senza volerlo di un ragazzo asiatico che non ha davanti a sé modelli maschili forti a cui rifarsi, o che lo convincano. E che ha coetanei o ragazzi più grandi di lui divisi in bande etniche di imbecille violenza.
Non sto a raccontare la trama, peraltro lineare, semplice, prevedibile almeno per chi ha frequentato il cinema americano di cui si è parlato sopra, di cui Eastwood è stato un figlio diretto (e ben più un figlio di John Ford e di John Wayne, con i quali non mi pare abbia mai lavorato, che non di Sergio Leone, che lo ha lanciato a suo tempo in alcuni meravigliosi western italici, disancorati e straniati). Né i suoi risvolti psicologici e religiosi, la dinamica dell'azione, la soluzione ovviamente tragica ma moralmente chiarissima.
Gran Torino convince più di altri film di Eastwood, dall'ideologia più contorta e all'insegna di un americanismo del genere "il nostro sistema è pur sempre il migliore". Anche se è apparentemente meno ambizioso, e senz'altro è meno costoso, è un film più chiaro, più limpido. Anche nella soluzione finale. E' un film- testamento più convincente di altri precedenti suoi film che pure avevano anch'essi del testamento. Ha un messaggio ed è un messaggio semplice e apprezzabile, che in passato ci è stato inviato da tanti, nell'arte e nella vita, e che un altro grande regista-attore americano, Orson Welles, ha sintetizzato affermando che "l'importante nella vita è invecchiare bene".
In un'epoca di vecchiaie che si arrendono e si fanno bavose o di vecchiaie che oscenamente mimano una gioventù che non hanno, non mi pare affatto che questa sia cosa di poco conto.
Articolo di Goffredo Fofi ripreso integralmente da "Il Messaggero".